Represse violentemente le proteste per la democrazia in Siria, che per la prima volta hanno avuto luogo in un campus scientifico dell’Università di Damasco. Il governo autoritario del presidente Bashar al-Assad, per bocca del ministro degli Interni, ha riconosciuto che contro i manifestanti è sta a usata la forza: le associazioni per i diritti umani parlano di 200 morti complessivi dall’inizio delle proteste a metà marzo, ma l’esecutivo prima della dichiarazione del ministro attribuiva le morti all’operato di infiltrati stranieri intenti a destabilizzare e istituzioni siriane.
Ribadendo l’efficacia della risposta immediata della leadership alle rimostranze dei cittadini, il governo ha parlato di “individui sospetti” che hanno bruciato edifici governativi, ucciso o ferito agenti di sicurezza dello Stato e ha cercato di seminare sfiducia nella popolazione. Da qui l’avvertimento del ministro degli Interni, secondo il quale le autorità siriane si confronteranno con i sobillatori “preservando la sicurezza del Paese e dei cittadini e la tutela dell’ordine in generale.”
Radwan Ziadeh, attivista siriano dei diritti umani e visiting scholar presso la George Washington University, ha detto che la dichiarazione è stata un tentativo di intimidire ulteriormente i manifestanti, circa 800 dei quali sarebbero stati arrestati. Le proteste sono iniziate il 15 marzo proprio a seguito dell’arresto di alcuni studenti che avevano realizzato graffiti contro il governo e quando sono diventate più diffuse e forti per l’entourage di Assad è stato più complicato attribuire le dimostrazioni ai sobillatori stranieri.
Ziadeh ritiene significativo che le proteste si siano estese a un campus universitario, anche se in fin dei conti i giovani mobilitati erano poche centinaia. L’auspicio dell’attivista, raggiunto al telefono dal New York Times, è che la protesta si estenda ad altri tra i 75.000 iscritti all’ateneo di Damasco.