Empiricamente lo sapevamo già: viaggiare e fare esperienze di studio e di lavoro fuori dall’Italia apre la mente e accentua lo spirito d’iniziativa. A confortare questa consapevolezza ora arriva un’indagine effettuata da Intercultura, l’associazione che promuove e organizza scambi e esperienze interculturali: un’esperienza di studio all’estero è un ottimo rimedio per evitare la “sindrome del bamboccione“. Hanno risposto allo studio 1.500 studenti appena iscritti al primo anno di università e che due anni fa hanno trascorso la quarta superiore in uno dei 50 Paesi in cui l’associazione propone programmi scolastici internazionali.
Ebbene, un anno di vita in un altro Paese ha decisamente influito sulle loro decisioni spingendoli a diventare medici (3 per cento del campione) e infermieri (d’elicottero o d’urgenza, magari per Medici senza frontiere, 3 per cento), ma non solo. Il 20 per cento delle “matricole” intervistate vorrebbe intraprendere la carriera diplomatica o lavorare nelle associazioni non governative, specialmente all’estero, l’11 per cento come ingegnere (il 15 per cento del campione sta frequentando un corso d’ingegneria, di questi ben il 32 per cento quella aereo-spaziale), il 10% vorrebbe fare il manager (come rappresentante di imprese all’estero, ad esempio), il 7 per cento farebbe volentieri l’interprete o il traduttore, meglio se al Parlamento europeo o all’Onu, il 5 per cento vorrebbe fare lo psicologo, il 4 per cento sogna di diventare ricercatore in Italia o all’estero (il Cern è sempre il più ambito).
La green economy e il contatto con la natura sono un’altra grande attrattiva per i “giovani di mondo” interpellati: il 2 per cento vorrebbe diventare enologo e il 4 per cento svolgere professioni in tutela della natura, come guardia forestale o per una Ong ambientalista. “Avere avuto la possibilità di vivere un periodo abbastanza lungo in un ambiente così ‘sano’ – racconta Marco, un periodo di studio in Finlandia – con panorami e possibilità di full immersion nella natura mi ha fatto capire che anche il mio futuro potrebbe essere indirizzato in quel senso”. Andrea, un anno in Danimarca, si è fatto ispirare invece dal “padre ospitante” che era architetto. E come lui, molti ragazzi sono stati influenzati, nella loro scelta professionale, dal lavoro della famiglia straniera che, gratuitamente, li ha ospitati per un periodo nella propria casa.
Un caso esemplare – segnala Intercultura – è quello dell’astronauta italiano dell’Esa Luca Parmitano, che una decina d’anni fa ha studiato negli Usa: “A 17 anni trovarmi a contatto con il mondo dell’aeronautica in occasione del mio anno di studio con Intercultura, è stato lo spunto decisivo che mi ha spinto verso la mia carriera di astronauta. Il mio papà ospitante della piccola cittadina di Mission Viejo in California, era un militare, navigatore di F18 e spesso mi ha portato a vedere le manifestazioni aeree. Quello, in un certo senso, è stato l’inizio della mia carriera aeronautica”.
Che l’esperienza all’estero sia un buon rimedio alla “sindrome” lo dimostrano anche i dati su quanti di questi studenti viaggiatori affianchino il lavoro allo studio anche dopo il rientro in Italia: il 38 per cento è impegnato full time, part time o saltuariamente per pagarsi gli studi, fenomeno che l’Istat registra in generale aumento per tutti gli studenti. Il 60 per cento invece ha scelto di studiare fuori sede (il 9 per cento di questi all’estero): segno che ai nostri studenti universitari basta lasciar casa una volta e poi difficilmente ci fanno ritorno. Insomma, quando non si decide di rimanere all’estero contribuendo ad alimentare la fuga dei cervelli, ci si rimbocca le maniche. Altro che mammoni.
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