Stefano Micelli è professore di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore del centro di ricerca Tedis della Venice International University, un consorzio di università e centri di ricerca internazionali con sede sull’isola di San Servolo. Fa ricerca sulle trasformazioni del sistema industriale italiano da più di 10 anni, con particolare attenzione al tema della competitività della piccola e media impresa. In “Futuro Artigiano”, edito recentemente da Marsilio, spiega come e perché l’artigianato non rappresenti solamente il passato del nostro Paese, ma ne possa anche delineare il futuro se considerato in chiave contemporanea. Noi di Università.it siamo andati a intervistarlo per capire cosa l’artigianato possa ancora dare al nostro Paese e come i giovani possano inserirsi nei nuovi spazi professionali che potrebbero crearsi.
Professore, negli ultimi anni noi giovani siamo stati cresciuti a pane e management, spinti a credere che il lavoro intellettuale avesse più dignità di quello manuale. È davvero così?
Non si tratta di fare tanto una competizione fra intellettuale e manuale. Si tratta di porre la questione in una nuova prospettiva accettando il fatto che l’economia della conoscenza non può essere solo l’economia dell’immateriale. Esiste una conoscenza che è intimamente legata alla dimensione del fare. Dobbiamo farcene una ragione, soprattutto se guardiamo i numeri della nostra economia e del nostro export.
Quindi in una società tecnologica e globale, come la nostra, quello dell’artigianato non è un concetto superato?
No, anzi, è proprio in una società in cui gran parte della conoscenza astratta è accessibile gratuitamente via internet che acquista valore ciò che mette insieme il sapere col mondo fisico. La vera sfida è incastrare buone idee in oggetti interessanti per il grande pubblico. In Italia abbiamo sempre tenuto separate le due dimensioni, pur avendole entrambe. La cultura manageriale deve liberarsi dal tradizionale senso di vergogna che prova verso le piccole e medie imprese e verso il lavoro artigiano. Le grandi maison del lusso francesi, ad esempio, hanno già riconosciuto al nostro saper fare un valore assoluto nel mondo, investendo unanimemente nel nostro Paese. Quando anche noi, invece di respingerlo, utilizzeremo questo saper fare, riscopriremo un potenziale di crescita enorme che è già a nostra disposizione.
La crescita del nostro Paese, in effetti, è messa a dura prova dalla congiuntura economica. Molte aziende soffrono e tra la crisi finanziaria e il vuoto politico a rimetterci sono i giovani, sia in termini di formazione che di occupazione. L’artigianato ha abbastanza appeal per diventare una valida alternativa formativa e professionale?
Deve diventarlo. E perché lo diventi dobbiamo rendere questi mestieri interessanti agli occhi dei giovani. I mestieri del nuovo artigianato sono mestieri pieni di sapere, cultura e innovazione. Vanno promossi come parte integrante di ciò che chiamiamo il contemporaneo, facendo prima piazza pulita dei luoghi comuni. Per fare un esempio, oggi non mi serve a nulla un generico idraulico che mi ripari il lavandino; ho bisogno di un idraulico che mi aiuti a pensare a come far diventare la mia una casa “green”. Se iniziamo a ragionare in questi termini, molti mestieri che abbiamo snobbato diventano accattivanti, soprattutto nello scenario di oggi in cui siamo chiamati a rispettare nuovi criteri di sostenibilità, a produrre di meno allungando il ciclo di vita dei prodotti, a dare più senso ai soldi che investiamo.
A scuola vengono spesso misurate diverse intelligenze attraverso i test psicometrici (logica, matematica, ecc.). Esiste anche un’“intelligenza artigiana”?
Sì. E ci sono vari aspetti che rendono l’intelligenza artigiana un’intelligenza che merita di essere riscoperta. Innanzitutto è un’intelligenza che si proietta nel mondo e che si traduce in un confronto con la realtà attraverso la creazione di prototipi e oggetti; in secondo luogo è un’intelligenza che ha bisogno di tempo per maturare in qualità e produrre risultati. Il rapporto con la realtà e il tempo, la necessità di incontrare gli altri e strutturarsi in comunità sociali sono aspetti tipici dell’intelligenza artigiana che meritano di essere riproposti non solo nel lavoro, ma anche nella società.
Quali sono le sfide a cui va incontro oggi un artigiano nel mercato globale?
Sono molte. Un primo nodo è legato all’apertura dei confini del saper fare. Abbiamo sempre pensato in termini territoriali, senza immaginare che una quota importante di questo sapere possa essere veicolata a livello internazionale. Il know how artigiano va portato su uno scenario più ampio, quello globale, per renderlo più sostenibile.
Un secondo tema è quello della comunicazione: i nostri artigiani hanno passato la loro vita a conservare segreti e a nascondere i processi. Oggi devono aprirsi e confrontarsi col mondo, imparare a raccontarsi e anche, in alcuni casi, a teatralizzare il loro saper fare coinvolgendo i giovani, i clienti, le imprese con cui lavorano.
La terza sfida è la tecnologia. Fare gli artigiani non significa rimanere bloccati in una tecnologia consolidata. Bisogna sfruttare le nuove tecnologie dal web alle stampanti 3d. Oggi l’artigiano non deve essere semplicemente custode della tradizione, ma deve farsi sperimentatore.
Visto che le competenze dell’artigiano oggi vanno ben oltre saper realizzare una bella scarpa o un bel gioiello, crede che ci sia bisogno di una sorta di “università dell’artigianato” che, accanto alla formazione pratica e al sapere di tipo esperenziale, trasferisca sui ragazzi anche competenze manageriali che permettano loro di essere più competitivi sul mercato globale?
Non credo serva attivare un corso di laurea. Queste attività richiedono percorsi di avvicinamento e di apprendimento che devono lasciare alle persone ampi spazi di discrezione e autonomia. Oggi esistono i laboratori di fabbricazione, come Fablab, dove i giovani possono imparare a usare le nuove tecnologie, le stampanti 3d, i laser cutter, le nuove frese a controllo numerico e possono conoscere i nuovi materiali in maniera autonoma, partecipando a conferenze e corsi, sia durante che dopo l’università. Questi spazi non danno dei diplomi, ma consentono ai giovani di avvicinarsi con più libertà ad attività che devono essere assimilate per gradi. Da parte nostra, dovremmo ampliare il ventaglio delle opportunità formative attraverso spazi ibridi in cui il pensionato settantenne che sa fare lavori al tornio insegna al ventenne diplomato o al trentenne laureato come costruire gioielli di nuova generazione.
Cosa direbbe ai giovani che pensano di intraprendere un percorso di questo tipo?
Che ci sono spazi sorprendenti per chi sceglie questi percorsi. È emozionante avvicinarsi a dei mestieri tradizionali e immettere in queste attività dosi di creatività, sapere, cultura e apertura internazionale di cui l’artigianato ha terribilmente bisogno. Può essere un’esperienza non solo remunerativa, ma anche intellettualmente molto stimolante.
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