Una settimana senza social network, per riflettere su quanto queste applicazioni stanno colonizzando le nostre vite. Nonostante le migliori intenzioni, gli studenti della Harrisburg University of Science and Technology non hanno gradito molto l’esperimento proposto dal rettore Eric D. Darr che, sulla scia di una iniziativa simile tentata lo scorso autunno, ha staccato la spina a Facebook, Twitter, MySpace e ai cugini minori. Per una lunghissima settimana.
Un filtro, impostato su tutto il network del campus, ha bloccato l’accesso ai social network per sette giorni. Il blackout era pensato per provocare “pensieri genuini”, costringendo gli studenti a riflettere su quanto le comunicazioni istantanee gravassero sulle loro performance di studio. Secondo il rettore dell’ateneo del Maryland (Stati Uniti) nonché promotore dell’iniziativa, Facebook & Co rappresentano infatti una minaccia alle interazione reale tra le persone e all’etica del lavoro: come provare agli studenti la propria dipendenza se non grazie ad una salutare crisi di astinenza?
Un piano diabolico, sulla carta. Peccato che soltanto il 15 per cento degli studenti abbiano cooperato con l’iniziativa senza opporre resistenza. I restanti hanno cercato ogni possibile via di scampo per aggirare il divieto e “cinguettare” un sos ai propri amici virtuali. Tantissimi i tentativi di collegarsi approfittando di qualche falla nel proxy, collegandosi abusivamente a qualche vicina rete wireless oppure attraverso i cellulare. C’è anche chi di fronte alla prospettiva di non poter aggiornare il proprio status per sette lunghi giorni ha lasciato il campus e raggiunto un ostello in grado di offrire loro asilo “sociale”.
L’istituto ha tentato comunque di sbarrare ogni possibile strada alternativa per accedere ai social network, riscuotendo da parte degli studenti reazioni indignate. Un mondo senza Facebook non è concebile per gli studenti, non meno di quanto lo sia un universo senza computer e cellulari, come provato da un recente studio di cui abbiamo scritto tempo fa. Con la differenza che in quel caso le “cavie” erano volontarie.
hmmm, peccato, se l’universita’ ne aveva collaborato con gli alunni invece di imporre qualcosa agli studenti avrebbe potuto produre dei risultati interessanti.